lunedì 5 dicembre 2016

Chissà






 Chissà – da “La Lampada E La Rosa”
(Anne Kussell – 1983)


Hi hi hi…
Ridere, brillare, sì.
Io?
Ricordo la polvere, farfalla-lettera minuscola
con i fanali rossi, sole
Sceso fra i limoni -  lumi impazziti per le nozze greche
All’Hotel Monastyr – una sete adornata e felice.
La preda di Cartagine scodinzolante nel buio annuncio del treno per il Nilo.
Cosa è stato di Hichbal nessuno lo sa.
Qualcuno dice c’egli è morto, in un granaio nel deserto del sale,
Impiccato con la sagola di un incensiere;
Altri che s’è preso carte e tabacco per Palermo o l’inferno,
Con soprannaturale apparizione a un impiegato delle Poste, a Taranto;
L’aveva conosciuto fra le spezie,
Inginocchiato su una scodella di ceramica, con un
Tè,
A causa di una colica. / Quella canaglia di Silvan _
Con un serpente arrotolato nella tasca bianca del calzone -
Ebbe la gran fama di domatore di fiori,
Anche se non ho mai capito che significasse -
Silvan (non lo chiederesti come fratello)
È lì nell’angolo.
Mastica una radice di non so che pianta_ robbia, rabarbaro…
Tant’è. Mastica e sputa a terra, misto a un muco di sigaro da due soldi…
Ai senatori a dissiparsi, a poltrire, offre la stessa giocata.
Nel gesto germina il limite del minareto. Dallo sputo una falena che canta una
strana cantilena d’arena, di rabbia…

Ed
Ecco, già, nella biga chiusa delle ore, Pan con il suo flauto
Di coralli, due fronti del cuore in faccia
Al
“Cimitero delle Anfore” – sai?
Torna spesso a prendermi la notte, con la bocca
Gelata di piume, me per prima a condurmi alla porta d’isola
che fiuto. E le sue mani là, ristrette alla penombra
Di una macera eternità di volo, di una intrisa eternità,
Di brace. Di una macera di
Luci. 

*
Ora
Afferro, con il  cuore a corda avanti - di? -
L’amuleto di sangue che portavo in
Dono, una minuscola macchina
Da cucire_ fossi ancora una bimba
Saprei farci gli orli alle vesti di tutte le maghe, tra la folla,
A macinarsi il grano con gli occhi, a inverdire il dirupo, i loro dialoghi giunti
A una casa di vento in tempo per una fibula slabbrata di calma.
Noi a ritardare i graffiti nella tazza d’oro o di gesso, qui.
La
Parola - anche una qualsiasi -  si fissa
Nella grande luce esalata, forse a Dio, forse alle sue genti di corti, col sangue finale, acuto -
Fra le arabesche di un allarme di preghiera,
Sopra la pietra del cuore levigata a mano negli anni,
Lucerne una notte ad Agadir.
E
Rivedo le ombre e rivedo le tue lettere d’amore. Frattanto la bellezza la
Spera viva; io giovane, fatta di  creta, vile quest’ultima
Sillaba.










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